L’espressione “argomenti di prova”è utilizzata principalmente dall’art. 116 c.p.c. per distinguerli rispetto alla “prova” vera e propria.
Tale disposizione, nello stabilire come sopra anticipato il più generale principio del libero convincimento, afferma che il giudice civile possa trarre argomenti di prova dalle risposte che le parti gli hanno dato nel corso dell’interrogatorio libero, dal loro ingiustificato rifiuto a sottoporsi all’ispezione e, più in generale, dal loro complessivo contegno processuale.
La dottrina processuale tradizionale, sulla scorta della superiore definizione, ha tratteggiato una gerarchia tripartita delle prove che, fondandosi sul rilievo che le stesse abbiano per il convincimento del giudice, vede, al vertice, le cosiddette “prove legali”, al secondo posto le prove “liberamente valutabili” e, al gradino più basso, appunto, i cosiddetti semplici “argomenti di prova”.
Le prove sono lo strumento attraverso il quale, su ordinaria sollecitazione delle parti o, eccezionalmente, d’ufficio, il giudice forma il proprio convincimento in ordine ai fatti prospettati nel processo.
Le prove cosiddette legali, invece, costituiscono quei particolari strumenti processuali il cui esperimento positivo conduca ad una necessitata valutazione del giudicante che non potrà discostarsi dal loro concreto risultato significante.
Ne costituiscono esempi rilevanti il giuramento decisorio e la confessione provocata tramite interrogatorio formale.
L’argomento di prova, invece, non riguarda direttamente i fatti controversi ma le altre prove (diverse da quelle legali) comunque acquisite al processo, confermandone l’attendibilità o la verosimiglianza, oppure infirmandola, indebolendola o, ancora, nei casi più gravi, addirittura radicalmente escludendola.
La questione certamente più spinosa relativamente alla ricostruzione concettuale dell’istituto in commento non è tanto collegata alla qualificazione definitoria dell’argomento di prova, quanto quella relativa alla capacità probatoria ad esso riconosciuto.
Sul punto sono chiaramente emerse in dottrina tre distinte ipotesi ricostruttive degli elementi in esame, secondo le quali:
- gli argomenti di prova possono essere pienamente apprezzati e valutati dal giudice civile, sulla scorta del principio di suo prudente e libero convincimento, e, al pari di tutte le altre prove, potranno essere poste a fondamento – anche da sole – della decisione giudiziale;
- un diverso approccio ermeneutico, viceversa, postula come gli argomenti di prova non possano essere posti da soli a fondamento della decisione ma, quali meri indizi presuntivi, possano, ai sensi dell’articolo 2729 c.c., rappresentare quei fatti noti da porre a base del ragionamento presuntivo, al ricorrere delle note circostanze derivanti dalla loro gravità, precisione e concordanza;
- un ultimo approccio afferma, invece, che gli argomenti di prova non possano essere posti a fondamento autonomo della decisione del giudice civile, né costituire la base di un ragionamento presuntivo, ma che per essi possa residuare un ben più circoscritto spazio ontologico, rappresentato dalla natura di elementi meramente rafforzati o valutativi di altre prove ritualmente acquisite a giudizio.
Nel tentare di comprendere quale di queste classificazioni possa essere valutata come la maggiormente condivisibile, faremo riferimento alle ipotesi di argomenti di prova espressamente riportate in seno alla norma dettata dall’articolo 116, comma due, c.p.c., utilizzando detta disposizione come programma generale, universalmente valevole in ogni distinta ipotesi in cui il Legislatore qualifichi, quale argomento di prova, gli effetti giuridici derivanti da una determinata condotta.
Tornando, dunque, alla litera legis in commento non v’è nessuno che non veda come la disposizione in esame preveda un criterio generale degli elementi valutativi in discorso, ossia “il contegno delle parti nel processo”, accanto a due ipotesi speciali, costituite dalla “mancata risposta delle parti in sede di interrogatorio libero” e dal loro “rifiuto a consentire alle ispezioni che il giudice abbia ordinato”[1].
Il contegno delle parti tenuto nel processo rappresenta, dunque, l’ipotesi generale dalla quale il giudice potrebbe attingere elementi di convincimento in ordine alla verità degli enunciati fattuali spiegati dalle parti.
Si nota, immediatamente, la significativa indeterminatezza della formula normativa usata dal nostro Legislatore.
La disposizione in esame, infatti, quale è vera e propria clausola di chiusura dell’Ordinamento processuale:
1) non chiarisce, in alcun modo, quali possano essere i diversi tipi di condotta rilevanti ai fini indicati (finendo con il lasciare all’autorità giudiziaria la possibilità di trarre argomenti di prova da qualsiasi atteggiamento processuale delle parti, in tesi, pure negativo) e
2) non chiarisce in cosa consista la parte di contegno processuale che possa costituire oggetto di valutazione da parte del giudicante.
La denuncia la genericità, ai fini valutativi, del comportamento delle parti, si coglie con maggior nettezza, utilizzando quale parametro il più eloquente comportamento inerte ed omissivo della parte in un processo civile: ossia la contumacia.
E’ noto, infatti, come, secondo l’insegnamento tradizionale, la contumacia sarebbe denotata da una qualificazione del tutto neutra e da essa il giudice civile non potrebbe desumere la prova circa la verità degli enunciati fattuali affermati dalla parte regolarmente costituita.
Si badi bene come, l’incontestabile verità della superiore affermazione non risulti minimamente sminuita neppure dopo l’introduzione del principio di non contestazione di cui all’articolo 115, comma uno, del codice di procedura civile[2].
Ragionamenti dissimili devono poi essere fatti agli effetti derivanti da altri comportamenti inerti posti in essere dalle parti: ossia la mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti di causa da parte del procuratore (art. 185 c.p.c. e 420 nel rito del lavoro), ovvero la mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di media conciliazione obbligatoria (art. 8 D.vo n. 28/2010), tutti i casi in cui il Legislatore espressamente faccia derivare la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova – addirittura in un successivo giudizio nel caso della mediazione – da atteggiamenti inerti che non sono in grado dirci nulla dal punto di vista epistemologico, circa la verità o la falsità degli enunciati fattuali agitati in giudizio dalle parti litiganti.
L’esempio concreto che con maggior evidenza ci fa cogliere l’illustrata aporia logica è, senz’ombra di dubbio, rappresentato dall’ipotesi che più di altre viene additata come paradigmatica al fine di sostenere come il contegno processuale della parte, anche se di natura omissivo, possa costituire fondamento della decisione giudiziale cerca la verità di un evento o di un enunciato fattuale controverso.
Ci si riferisce all’ingiustificato rifiuto della parte di sottoporsi ai necessari prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame genetico (cosiddetto esame del DNA).
È evidente, infatti, come, dal punto di vista logico ed epistemologico, il rifiuto del presunto padre, convenuto per l’accertamento della paternità, postuli nulla circa l’eventuale bontà della affermazione spiegata, ai suoi danni, da parte attrice.
Altro discorso, viceversa, è l’affermare come l’ingiustificato rifiuto in parola, valutato contestualmente all’intero corteo probatorio positivamente già acquisito al giudizio, seppur anche solo indiziario, possa costituire base per il convincimento del giudice circa la sussistenza della paternità.
Del resto, diversamente ragionando, si correrebbe il rischio abominevole di predicare l’accoglimento automatico di qualsiasi domanda di riconoscimento o disconoscimento di paternità, in tesi del tutto sfornita di prova, in ogni caso di ingiustificato rifiuto di sottoposizione al riferito esame genetico. Una conclusione aberrante, ovviamente da rifiutare[3].
Queste considerazioni ci consentono di avviare correttamente il discorso anche sopra gli altri due contegni “speciali” indicati nel secondo comma dell’articolo 116 del codice di rito: ossia, 1) le risposte che le parti danno al giudice in sede di interrogatorio libero e 2) il rifiuto delle stesse ad acconsentire, senza giustificato motivo, le ispezioni ordinate dal giudice.
Anche in queste due ulteriori ipotesi, nulla potrebbe predicarsi tra il contegno concretamente negativo tenuto dalla parte e la verità intrinseca della questione fattuale controversa.
Il vero è che, anticipando le nostre considerazioni conclusive, che tutte queste condotte, anche a carattere negativo, non rappresentano “prove” o fatti rappresentativi indiziari che possano, da soli, essere porre a fondamento del giudizio finale, ma, in verità, essi altro non possano essere che elementi “a-probatori o meta probatori” che partecipino del processo decisionale del giudicante corroborandone o infirmandone i processi decisionali che quest’ultimo ha già avviato sulla scorta delle prove ritualmente acquisite al processo.
Non dunque veri “fatti di prova”, ma semplici “elementi” a corredo di una valutazione già pienamente aliunde prodottasi.
Le superiori conclusioni trovano ulteriore conferma valutando anche l’ultima delle ipotesi elencate, ossia le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero.
Non siamo in presenza di interrogatorio formale, ossia di quello specifico mezzo di prova grazie al quale la parte cerchi di provocare la confessione della controparte, facendole affermare in giudizio fatti sfavorevoli alle tesi processuali sostenute.
Interrogatorio libero è quello svolto in sede di prima udienza di comparizione delle parti, affinché il giudice possa, ascoltandole direttamente e personalmente, acquisire ulteriori elementi conoscitivi utili alla formazione del proprio convincimento.
Ma tali dichiarazioni, si esclude decisamente, possono fondare da sole una motivazione della sentenza, ad esse va attribuito soltanto la funzione chiarificatrice delle allegazioni fattuali delle parti per dar modo alle stesse di spiegare meglio al giudice le proprie ragioni.
Accanto alla superiore funzione, ne viene storicamente affiancata un’altra rappresentata da quella di consentire al giudice di provocare il comportamento delle parti al fine di trarre dalla loro reazione ulteriori elementi valutativi delle prove già acquisite al processo.
L’interrogatorio libero, dunque, tende ad acquisire la natura di strumento probatorio di carattere sussidiario, al fine di consentire al giudice di pervenire ad una decisione fondata sul prudente apprezzamento dei fatti controversi presentando, per tal verso, stringenti analogie col giuramento suppletorio nei casi di cd. “semiplena probatio”.
Ciò perché l’interrogatorio libero non è un mezzo di prova e le dichiarazioni ivi rese non hanno certamente efficacia confessoria, essendo liberamente e discrezionalmente utilizzabili dal giudice quali meri elementi di convincimento.
Attraverso esso, la parte potrà integrare, precisare e chiarire le proprie allegazioni, domande, eccezioni e conclusioni e, eventualmente, contestare o non contestare le circostanze di fatto affermate dall’avversario sulle quali il giudice ha chiesto chiarimenti e più tardi tali risposte potranno, senz’altro, costituire materiale di fatto sul quale il giudice possa formare il proprio convincimento.
[1] Bruno Sassani, “Lineamenti del processo civile italiano”, 2021, pagg. 282 e ss. e, Roberto Poli, “Gli argomenti di prova”, rivista trimestrale di diritto processuale civile n. 2/2022, pagg. 460 e ss.
[2] Corte di cassazione numero 3765 del 12 febbraio 2021, tra le tante, ove si precisa che la contumacia non rappresenta “un comportamento valutabile, ai sensi dell’articolo 116 codice procedura civile, per farne argomenti di prova inganno del contumace”.
[3] Roberto poli, “Gli argomenti di prova”, in Rivista trimestrale di diritto processuale civile n. 2/2022, pagg. 460 e ss.
A cura di Avv. Giancarlo Sciortino