La Corte Europea dei diritti dell’uomo è stata più volte adita ai fini della valutazione della conformità della pena dell’ergastolo ostativo con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in ultimo, la questione è affrontata dalla Grand Chambre nel 2019 nella disamina del noto caso Marcello Viola c. Italia (No. 2)[1].


A cura di Fabiana Esposito

Breve introduzione della disciplina, il combinato disposto degli articoli 4 bis o.p. e 58 ter o.p., ed il concetto di collaborazione ex articolo 58 ter. Nella Costituzione Italiana tutte le pene previste hanno la specifica funzione di rieducare il reo (articolo 27, co. 3 Cost.), ciò conduce alla deduzione secondo cui ad ogni condannato, seppur apparentemente irrecuperabile, lo Stato deve fornire gli strumenti per un corretto reinserimento nella società libera. Su un piano dialetticamente incompatibile con tale fine si pone il c.d. ergastolo ostativo, pena non prevista dal codice penale, la cui disciplina si ricava dal combinato disposto dell’articolo 22 c.p. (norma che prevede l’ergastolo), dell’articolo 4 bis, co. 1 e 1 bis dell’ ordinamento penitenziario ed infine dell’articolo 58 ter ord. pen. che disciplina l’istituto della collaborazione con la giustizia.

In particolare in forza dell’articolo 4 bis, prevedeva che la concessione dei benefici fosse subordinata al requisito, di carattere negativo, che non vi fossero elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, instaurandosi nel corso degli anni un vero e proprio doppio binario nell’ordinamento penitenziario, in cui vi figurano l’ergastolo così ridefinito “comune” e l’ergastolo ostativo, che si differenziano per il regime di esecuzione della sanzione. Nel dettaglio l’ergastolo ostativo è un particolare tipo di regime penitenziario che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, individuati al comma 1 di tale norma, ove il soggetto condannato non collabori con la giustizia[2] o tale collaborazione sia impossibile[3] o irrilevante[4]. La condanna all’ergastolo ostativo a differenza
dell’ergastolo comune (per cui sono previste riduzioni di pena, permessi premio, e l’accesso ad ulteriori benefici, in ragione di una valutazione di ravvedimento e pentimento del condannato) non consente, in assenza della collaborazione di cui all’articolo 58 ter, l’accesso ai benefici suddetti. Dunque nelle ipotesi in cui non si abbia un ravvedimento del reo la condanna si tradurrebbe in una pena perpetua, interamente scontata in carcere, che si potrebbe facilmente definire “fine pena mai”. Inoltre la norma contenuta nell’articolo 4 bis contiene un ampio catalogo di reati suddivisi in diverse fasce a seconda della maggiore gravità della condotta, due sono le fasce di reati particolarmente gravi: la prima implicante una realtà associativa di tipo mafioso, terroristico o eversivo; la seconda invece di reati che
irrevocabile, ferma restando la necessaria assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la compagine criminale.
esulano da una tale realtà.[5] La disciplina individua un presupposto di presunzione legale assoluta di pericolosità sociale, fondata sul titolo di reato commesso, la quale, a sua volta, si basa sull’ulteriore presunzione di permanenza dei legami con le associazioni criminali di provenienza[6], che impedisce una reale riabilitazione extra moenia ai relativi autori e sottrae totalmente al giudice il potere di valutare caso per caso l’accesso ai benefici penitenziari.[7] L’articolo 4 bis è utilizzato dal legislatore come strumento di contrasto alla criminalità organizzata incentrando la strategia sul “pentitismo”[8][9] al fine di spingere il reo a collaborare con la giustizia.
Alla luce di queste considerazioni la collaborazione con la giustizia ex articolo 58 ter 9 è necessaria ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, difatti solo tramite una condotta che favorisca l’attività della magistratura e delle autorità competenti nella persecuzione dei soggetti coinvolti nel sodalizio criminale dà la possibilità di ottenere condizioni migliori al detenuto10, pertanto solo la positiva collaborazione con la giustizia potrà rimuovere la preclusione che impedisce di accedere ai benefici. La collaborazione dunque potrà essere valutata quale indice legale della “rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a sua volta è necessaria per valutare il venir meno della pericolosità sociale e i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge subordina l’ammissione ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario”.[10]

Inoltre è da notare che la collaborazione non sempre coincide con un ravvedimento del reo, ma può essere mossa dai più disparati motivi, (tra cui ad esempio il timore per l’incolumità dei propri cari o il ripudio morale di accusare parenti e famigliari) [11], e che ben può essere frutto di “mere valutazioni utilitaristiche”[12] e non anche segno di un’effettiva risocializzazione; va peraltro evidenziato che in alcuni casi la scelta di una mancata collaborazione non può essere assunta come indice di pericolosità specifica[13]. Posto ciò, la disciplina ha suscitato forti critiche e dubbi di legittimità costituzionale in dottrina di cui la sentenza capostipite è la n. 306 del 1993[14] della Corte Costituzionale, questa afferma un concetto che sarà ribadito e sviluppato anche nelle successive decisioni, tale per cui “alla pena, la Costituzione assegna una natura polifunzionale, avendo essa, da un lato, finalità di prevenzione generale e difesa sociale e, dall’altro, finalità di prevenzione speciale e di rieducazione; e fra queste finalità non può istituirsi una rigida gerarchia, dovendo queste sempre essere bilanciate, senza che l’una possa, in assoluto, obliterare l’altra”[15], nella medesima sentenza è poi affermata la scelta di restringere l’accesso alle misure alternative alla detenzione a vantaggio dei soli detenuti che collaborino con la giustizia, finendo così però con il comprimere eccessivamente le finalità rieducative della pena[16]. Nella giurisprudenza successiva non è mai stato posto in discussione il meccanismo della collaborazione quale chiave di accesso al percorso rieducativo, anzi ha avuto il merito di adeguare la disciplina ai principi
condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione. 10 L. Pace, op. cit., 4.
costituzionali. Con una serie di interventi legislativi la Corte Costituzionale è intervenuta per adeguare la portata normativa dell’articolo, questa ritiene, infatti, che “la condizione sufficiente perché il sistema sia conforme a Costituzione è solo quella di subordinare l’accesso alle misure rieducative ad una collaborazione oggettivamente esigibile”[17], poiché soltanto quando un’utile collaborazione con la giustizia non è più oggettivamente possibile l’accesso ai benefici risulta precluso, ed in questo caso la normativa è dunque costituzionalmente illegittima.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte EDU
Il Sig. Viola, prese parte alla c.d. “seconda faida di Taurianova”[18] che coinvolse dagli anni ’80 ai ’90 diverse famiglie mafiose che ambivano a controllare la città che porta il nome della faida per l’appunto.
L’imputato fu condannato una prima volta a dodici anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, è stato poi condannato all’ergastolo in un secondo processo, essendo stato ritenuto colpevole con il riconoscimento dell’aggravante mafiosa per aver commesso omicidi, rapimenti e per aver ricoperto il ruolo di promotore nell’organizzazione criminale.
Nel 2011 e nel 2013 ha fatto richiesta prima di permesso premio, ricevendo risposta negativa e successivamente di aver accesso alla liberazione anticipata, domanda, questa volta, accolta. Nel 2015 poi presentò al magistrato di sorveglianza istanza di liberazione condizionale in quanto si professava innocente, affermando per tale ragione di non poter utilmente collaborare con la giustizia e chiedendo una pronuncia incidentale di inesigibilità della collaborazione (si ricorda che perché possa beneficiare dei permessi premio il detenuto deve mostrare piena volontà di collaborare e fornire elementi utili alla magistratura). In particolare nell’istanza proposta il ricorrente sosteneva che “la necessità di cooperare con le autorità per poter

beneficiare delle prestazioni carcerarie si scontrava con lo scopo riabilitativo della reclusione così come con la sua genuina convinzione di essere innocente”[19], e chiedeva al Tribunale di sorveglianza di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, co.1 per contrasto con l’articolo 27, co.3 Cost. (funzione rieducativa della pena) e per violazione dell’articolo 3 CEDU[20]. Il Tribunale dichiarò infondata la questione di legittimità e respinse l’istanza nel merito in quanto l’unico modo per dimostrare di non aver più nessun contatto con l’organizzazione criminale era la collaborazione con la giustizia e le autorità competenti.

Volendo analizzare la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul tema viene in rilievo la pronuncia n. 135/2003, con cui la Corte sancisce la legittimità dell’articolo 4 bis, sostenendone la forte compatibilità con la Costituzione italiana data dal fatto che il detenuto poteva scegliere di collaborare liberamente senza alcuna forma di coercizione22; ancora stabilisce che la preclusione di accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale, escludendola nei casi in cui la collaborazione con l’autorità giudiziaria risulti impossibile (perché i fatti e le responsabilità sono già stati accertati) o inesigibile (quando si tratta di qualcuno che abbia avuto una limitata partecipazione al fatto criminoso), non comporta un danno al detenuto, e soprattutto non si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, poiché scegliendo di non cooperare con la giustizia dimostra di non voler accedere al percorso riabilitativo, sintomo ed indice di persistente pericolosità sociale, citando la Corte “non vi è dubbio che la disciplina censurata non impedisce in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale, ma ancora il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il ‘sicuro ravvedimento’ del condannato”[21] (sent. n 273/2001). Inoltre Marcello Viola si rivolse anche alla Corte di Cassazione che rigettò il ricorso nel 2016, sottolineando che “in light of the gravity of the Mafia phenomenon, the Italian legislator was free to determine the eligibility requirements for parole”.[22] Non avendo avuto successo dinanzi le corti interne il ricorrente si rivolse alla Corte EDU avviando un procedimento contro l’Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti in quanto la sua pena detentiva era irriducibile. Il 12 dicembre 2016 presentò ricorso contro la Repubblica italiana in cui lamentava la violazione di quattro articoli CEDU: l’articolo 3, in quanto, a causa del fatto che non avesse potuto utilmente collaborare con la giustizia ai sensi dell’articolo 58 ter, ord. pen., l’istanza per la liberazione condizionale gli fu rigettata; l’articolo 5 par. 4, poiché la detenzione non è mai stata considerata legittima; l’articolo 6 par. 2 in riferimento al diritto al silenzio; ed infine l’articolo 8, l’onere di collaborazione violerebbe l’integrità morale della persona[23]. La Corte ha giudicato ammissibili le sole doglianze relative agli articoli 3 e 8 CEDU, difatti ai sensi dell’articolo 34 della stessa Convenzione il condannato potrà agire in difesa dei propri diritti laddove il legislatore non tenesse in considerazione due principi: in primo luogo deve sussistere un motivo legittimo di utilità sociale perché sia condannato a quella pena detentiva; in aggiunta “è richiesto che vi sia proporzione tra le finalità di punizione, difesa sociale e dissuasione della pena e quella di rieducazione e reinserimento sociale del reo”.[24]
I principi in questione sono stata formulati per la prima volta dalla Corte EDU chiamata a pronunciarsi sul caso
Vinter c. Regno Unito[25] nel 2013; sebbene oggetto della

decisione fosse l’istituto del “life imprisonment without parole” dell’ordinamento inglese, questo presenta
affinità con l’ergastolo ostativo italiano, ed in questa occasione i giudici di Strasburgo hanno inoltre ribadito che perché la pena dell’ergastolo sia legittima rispetto al dettato dell’articolo 3 CEDU, è a tal fine necessario che questa si configuri come pena perpetua
“comprimibile”[26], per cui da quanto emerge dalla decisione sul caso Vinter, la pena perpetua non riducibile si pone in contrasto con i principi della Convenzione qualora non sia consentito il riesame dei fatti. Non è compito della Corte prescrivere in che forma,(giudiziale o esecutiva), o in che modo deve aver luogo la “review”, ma è stabilito che tutti i sistemi legali nazionali debbano dotarsi di un meccanismo effettivo e specifico, affermando sul punto che “article 3 had to be interpreted as requiring reducibility of life sentences, in the sense of a review allowing the domestic authorities to consider whether any changes in the life prisoner are so significant, and such progress towards rehabilitation has been made in the course of the sentence, as to mean that continued detention can no longer be justified on legitimate penological grounds”.[27] Ancora è aggiunto che il protrarsi della detenzione è illegittimo laddove sia accertato che gli obiettivi della pena comminata siano stati raggiunti dalla porzione di pena già espiata così che sia offerta la possibilità al detenuto di dimostrare che è degno di reinserirsi nella società libera30.
In definitiva in Vinter è stabilito che quando il condannato è privo di una realistica possibilità di liberazione e non è lasciato al giudice competente nessun mezzo per pronunciarla, è da considerarsi inumana la pena detentiva perpetua con caratteristiche tali da togliere il diritto alla speranza[28], un’opinione sul punto è fornita dal giudice Ann Power Forde, che afferma quanto segue: “article 3 encompasses what might be described as the right to hope. Those who commit the most abhorrent and egregious of acts and who inflict untold sufferings upon others nevertheless retain their fundamental humanity and carry within themselves the capacity to change. Long and deserved though their prison sentences may be, they retain the right to hope that, someday, they may have atoned for the wrongs which they have committed. They ought not to be deprived entirely of such hope. To deny them the experience of hope would be to deny a fundamental aspect of their humanity and to do that would be degrading”.[29]
La successiva giurisprudenza europea ha fatto propri tali principi consolidando alcuni concetti essenziali: qualsiasi sia stato il crimine commesso dal detenuto non può essere privato del suo diritto ad ottenere una commutazione della sentenza qualora abbia fatto emenda, inoltre la possibilità di liberazione condizionale deve essere possibile de iure e de facto ed essere strutturata prevedendo riesami periodici non oltre i 25 anni dall’inizio dell’esecuzione della pena e consentendo al detenuto di essere a conoscenza delle condizioni per poter ottenere la suddetta liberazione[30]. Appare opportuno, a questo punto, esaminare il precedente leading case della Corte EDU in materia di ergastolo, costituito da Kafkaris c. Cipro[31] del 2008. Il caso vedeva coinvolto il cittadino cipriota Panayiotis Agapiou Panayi, alias Kafkaris, condannato nel 1989, a tre ergastoli obbligatori poiché ritenuto colpevole di tre omicidi premeditati, commessi due anni prima. Il problema principale che si poneva riguardava la liberazione condizionale, in quanto era in vigore una

riesaminare la sua pena perpetua rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, per quanto eccezionali possano essere i suoi progressi per correggersi, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo. La punizione, del resto, rischia di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo: quanto più vive il detenuto, tanto più lunga sarà la sua pena. In tal modo, anche quando l’ergastolo è una punizione meritata alla data in cui viene inflitta, col passare del tempo esso non garantisce più una sanzione giusta e proporzionata.”; in merito si veda anche quanto detto dalla
Corte nel caso Kafkaris v. Cyprus, ECtHR, Grande Camera, 12/08/2008, ricorso n. 21906/04.
disposizione parlamentare che prevedeva, nel caso di condanna all’ergastolo, un massimo di venti anni di detenzione, ma a seguito di una declaratoria di incostituzionalità del 1996, della Corte Suprema di Cipro, questa normativa venne riformata dal Parlamento cipriota nello stesso anno e venne approvato un meccanismo tale per cui il Presidente della Repubblica, che ai sensi dell’art. 53 Cost. aveva il potere di grazia e di rimessione, sospensione e commutazione delle pene, si vide riconosciuto anche quello di porre fine anticipatamente alla detenzione di qualunque persona, ergastolani compresi[32]. Il ricorrente dovette confrontarsi con questo sistema: al momento del suo ingresso in carcere erano ancora in vigore i precedenti provvedimenti legislativi, poi dichiarati incostituzionali, in base ai quali le autorità penitenziarie avevano già comunicato al detenuto la data di liberazione[33]. A seguito della riforma però non venne più rilasciato nella data indicata. Nel 2004 decise di rivolgersi alla Corte EDU, lamentando di essere stato soggetto a trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU in quanto non vi fosse un sistema che disciplinasse la liberazione condizionale né tantomeno consentisse ai detenuti di essere realmente riammessi nella società libera ottenendo una sentenza proporzionata al reato. Da parte sua, il Governo sostenne che tutti gli ergastolani, nonostante la gravità dei reati commessi, avevano una sufficiente speranza di essere rilasciati e che, poiché il sistema cipriota prevedeva la doppia possibilità di intervento del Capo dello Stato, non vi era alcuna violazione dell’articolo 3 CEDU. A sostegno di tale tesi, ovvero che l’ergastolo fosse de iure e de facto riducibile, sottolineò che il Capo dello Stato aveva già rilasciato 11 ergastolani negli anni precedenti, 9 nel 1993, uno nel 1997 ed uno nel 2005[34]. La Corte EDU, preso atto del potere di grazia del Presidente della Repubblica di intervenire e rilasciare i detenuti, anche ergastolani, più volte esercitato in passato ed in particolare che “the nine life prisoners who, like the applicant, had received their sentence within the period when the Prison Regulations were applicable and had been allocated a release date by the prison authorities were not released on the basis of the Regulations or their sentence but by the President in the exercise of his discretionary Constitutional powers” [35], ritenne che l’articolo 3 CEDU poteva dirsi rispettato poiché il ricorrente non poteva dirsi privato de iure e de facto della possibilità di liberazione e che l’ergastolo fosse quindi concretamente riducibile. Ripartendo da questo punto per proseguire l’analisi della vicenda Viola c.
Italia, la Corte EDU, dopo un’attenta analisi della legge interna e della giurisprudenza sia della Corte Costituzionale che della Corte di Cassazione, ha da subito precisato che le scelte di politica criminale prese dal legislatore non sono sindacabili a livello europeo, eccetto nel caso in cui esse contrastino con i principi della Convenzione, e nel caso in questione ha riconosciuto che la Corte di Cassazione, pur riconoscendo nel rinvio che le organizzazioni mafiose si fondano su legami permanenti che anche la reclusione prolungata non può spezzare[36], aveva deferito alla Corte
Costituzionale una questione di legittimità dell’articolo 4 bis, osservando che la legislazione interna non vieta in modo assoluto l’accesso alla liberazione condizionale ma lo subordina al requisito della collaborazione ex articolo 58 ter ord. pen.
La posizione del ricorrente si colloca a metà strada tra quella del condannato all’ergastolo ordinario ex articolo 22 c.p., il quale può ottenere una riduzione della pena de iure e de facto, e quella del condannato all’ergastolo

ostativo ex articolo 4 bis ord. pen., a cui è preclusa una concreta prospettiva di liberazione condizionale e di riesame della detenzione[37]. Inoltre la Corte ha richiamato il principio di dignità umana, che vieta di privare un condannato della possibilità di reinserirsi nella società, ed ha sottolineato che la riabilitazione e la risocializzazione deve caratterizzare tutta la sanzione penale, fornendo al soggetto una reale possibilità di recupero della libertà un giorno e “di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione”.[38] La Grande Camera alla luce di queste considerazioni ha ritenuto che tale scelta legislativa crei una presunzione assoluta di pericolosità sociale, tale previsione poggia sulla presunzione assoluta che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici extramurari.
“In quest’ottica, la scelta di collaborare con la giustizia viene assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati”[39], inoltre tale presunzione impedisce qualunque valutazione dei giudici sui progressi ottenuti dal detenuto che
potrebbero portarlo ad accedere ai benefici stessi, e “in this sense, the special regime of the ergastolo ostativo does not attach importance to any progress towards rehabilitation that non-cooperating prisoners may make”43, inoltre ha notato come l’ordinamento italiano non offra all’ergastolano reali prospettive di liberazione e/o riduzione della pena, non consentendo neanche di accedere al meccanismo del riesame o assicurare la risocializzazione del condannato, se non in virtù della eventuale collaborazione con la giustizia. La Corte europea spezza la presunzione legale assoluta tale per cui il rifiuto di cooperare con le autorità è indice di mancata riabilitazione, ed anzi afferma che “l’assenza di collaborazione non può essere un segnale certo della mancata rieducazione del reo e che, di converso, la collaborazione non è un indice altrettanto certo di rieducazione” [40], considerato che la rigidità della disciplina non permette di tener conto sia di situazioni nelle quali, pur in mancanza di collaborazione, il detenuto avesse dato prova di partecipazione all’opera rieducative e comunque modificato la propria personalità, che di casi in cui la non cooperazione è segnata dal timore di percolo per i propri familiari. Con sentenza del 13 giugno 2019 la Corte di Strasburgo accoglie il ricorso del ricorrente Viola e dichiara l’incompatibilità del life imprisonment without prospect of release con la Convenzione EDU ed in particolare con l’articolo 3 CEDU, aggiungendo per di più che sebbene riconosca la gravità dei reati individuati dal legislatore italiano nel dettato dell’articolo 4 bis, la disciplina in questione non è giustificabile, ed inasprisce eccessivamente la pena dell’ergastolo ostativo senza possibilità concrete di ridurla né tantomeno di provare che la passata condotta criminale del ricorrente sia stata rivista e modificata, se non attraverso l’istituto ex articolo 58 ter. Nonostante la positiva collaborazione con la giustizia costituisca sicuramente una manifestazione di dissociazione dal sodalizio criminale, i giudici riconoscono che quest’ultima finisce per essere l’unica strada percorribile e concreta per l’accesso ai benefici penitenziari. Alla luce di ciò tutte le forme di ergastolo che non consentono riduzioni di pena, (in questo caso specifico ci si riferisce all’ergastolo ostativo), sono considerate inumane e degradanti, contrarie all’articolo 3 CEDU, finendo per vanificare ogni sforzo che i detenuti posso fare verso la propria

riabilitazione[41]. Tale eccessiva limitazione alla prospettiva di rilascio per gli ergastolani ostativi italiani costituisce una violazione dell’articolo 3 CEDU, integra gli estremi di una pena di fatto irriducibile ed è difatti così cristallizzata la presunzione assoluta di pericolosità del soggetto che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione; nella sentenza Viola, fermo restando quanto contrariamente ritiene il Procuratore Gratteri “un capomafia resta tale per tutta la vita”, i giudici di Strasburgo hanno invece dato decisivo rilievo a un profilo temporale: la personalità del condannato non rimanga fissata al momento del reato commesso ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena[42], “la legge italiana disponendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i delitti sono commessi, invece di tener canto del percorso di inserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna” [43]. Ed ancora che si tratta di un problema strutturale[44] dell’ordinamento italiano, e che dato l’elevato numero di ricorsi pendenti[45] sarà compito dell’Italia provvedere ad eliminare le conseguenze delle violazioni accertate con misure efficaci. Aggiungendo che “la natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente.”[46] In conclusione il caso Viola ha contribuito a rafforzare la giurisprudenza europea in materia di life imprisonment, a favore di pene detentive meno lunghe e attribuendo maggior rilievo alla risocializzazione e rieducazione del condannato, ed ai progressi ottenuti da quest’ultimo nel corso dell’espiazione della sua pena.[47]

Gli effetti della decisione Viola sull’ordinamento italiano e la storica pronuncia costituzionale n. 253 del 2019
La Corte Costituzionale ha sempre difeso la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, affermando che la natura intramuraria perpetua della pena risiede nella volontà del condannato di collaborare o meno con la giustizia, dunque frutto di una scelta autonoma, libera e sempre reversibile tal per cui si giustificherebbe sul piano costituzionale e non violerebbe l’asserto ex articolo 27 comma 3, Cost. Tuttavia il fine di risocializzazione, che dovrebbe costituire il fine di tutte le pene è del tutto assente nel caso dell’ergastolo ostativo, allontanando sia la possibilità di accedere ai benefici penitenziari che di riconquistare la libertà.
L’articolo 4 bis porta con sé un sistema basato sulla presunzione di persistenza dei legami con
l’organizzazione criminale, presunzione definita di “pericolosità specifica”[48] in diverse sentenze della Corte tra cui la sent. n. 265 del 2010 nella quale per la prima volta si fa riferimento alle connotazioni sociologiche del reato, in forza del quale, l’appartenenza ad associazioni

di stampo mafioso implica che sia suscettibile di produrre “una solida e permanente adesione tra gli associati al sodalizio criminoso, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale”.[49] È quindi su tali connotazioni che si fonda la giustificazione delle presunzioni assolute di pericolosità. Per questi motivi la Corte Costituzionale con sentenza n. 149 del 21 giugno 2018 ha dichiarato l’incostituzionalità del carattere automatico delle preclusioni, che precludono al giudice, così come osservato anche dalla Consulta, di valutare individualmente ciascun condannato a seconda delle circostanze del caso concreto, violando il criterio costituzionalmente vincolante che esclude rigidi automatismi (non potendo trovare giustificazione costituzionale presunzioni assolute di pericolosità fondate unicamente sul titolo del reato commesso)[50] e richiede invece un bilanciamento tra funzione general preventiva e quella rieducativa.55 Sembra opportuno segnalare che il meccanismo stesso di valutazione di pericolosità del condannato non si fonda su un controllo concreto da parte della magistratura della realtà fattuale ma bensì su rigido sistema legislativo di presunzioni. Di qui ne discendono i dubbi di legittimità costituzionale, più volte segnalati[51] e mai realmente superati, in relazione sia al principio di rieducazione del reo ai sensi dell’articolo 27 co.3 Cost. che al principio di uguaglianza, di libertà morale e personale57 in quanto il reo è costretto a collaborare per ottenere la fine della pena che altrimenti mai raggiungerebbe. A partire quindi dalla sentenza 149/2018, la Consulta ha evidenziato che la scelta collaborativa ben può essere sia frutto di una volontà di emenda che di valutazioni utilitaristiche, ed ha preso atto che è necessaria una valutazione individuale, caso per caso ispirata ai principi costituzionali di flessibilità e progressione trattamentale ex articolo 27, co. 3 Cost. La decisione sul caso Viola è stata definita come un “quasi-pilot judgment”[52] cioè un giudizio con cui è evidenziato il problema strutturale ma non è previsto né quali misure adottare né il rinvio di tutti i ricorsi analoghi;[53] secondo l’articolo 46 CEDU gli Stati hanno l’obbligo di dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU fermo restando che sono comunque liberi di determinare i mezzi con cui adempiere, ciò ha significato che era necessaria un riforma legislativa che ponesse l’Italia in liea con le indicazioni fornite dalla
CEDU. L’occasione si è presentata con un caso simile a Viola c. Italia, ovvero un detenuto ergastolano non collaborante, in relazione al quale è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale riguardo l’articolo 4 bis ord. pen., per contrasto con gli articoli 3 e 27 Cost., nella parte in cui esclude che il detenuto possa beneficiare dei permessi premio senza aver collaborato con la giustizia ai sensi dell’articolo 58 ter ord. pen. La questione, sollevata dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, ricalca l’argomentazione del caso Viola, in cui si osserva che la preclusione assoluta posta dall’articolo 4 bis risulta irragionevole in quanto non consente la verifica in concreto da parte del magistrato di sorveglianza della presenza della pericolosità sociale che giustificherebbe il mancato accesso ai benefici penitenziari[54]; e per il profilo riguardante l’articolo 27 Cost., ovvero quello della finalità rieducativa della pena, la disposizione penalizzerebbe eccessivamente gli obiettivi posti dal parametro costituzionale e disincentiverebbe la stessa partecipazione del condannato al percorso rieducativo connesso al trattamento penitenziario[55]. Con la sentenza n. 253 del 4 dicembre 2019, la Corte Costituzionale si pronuncia richiamando sia la sua stessa giurisprudenza che le argomentazioni della Corte EDU sul caso Viola,

e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, co. 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con l’articolo 3 CEDU, l’articolo 3 Cost. e l’articolo 27, co.3, Cost., affermando che “nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti [56] di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.”[57] Pur dichiarando illegittimità costituzionale della norma non affronta direttamente la questione dell’ergastolo ostativo[58], né viene posta nel predicato del petitum della pronuncia, ma svolge una funzione orientativa, considerando le affermazioni contenute in tale decisione nella loro totalità; la questione riguarda piuttosto i condannati per reati cosiddetti ostativi, a pena perpetua o a pena temporanea, che non possono accedere ai permessi premio laddove non abbiano esercitato utile collaborazione, anche dopo la condanna, nello specifico si tratta di una “revisione”[59] della natura assoluta della preclusione che subordina la concessione dei benefici in virtù della positiva cooperazione, adeguando la disciplina ai principi costituzionali, in particolare agli articoli 3 e 27 Cost. e all’articolo 3 CEDU. Per i giudici non è la presunzione in sé ad essere illegittima, ma lo è pretendere che non possa essere ammessa prova contraria della sussistenza, in capo al detenuto non collaborante di una pericolosità incompatibile con l’accesso ai permessi premio in forza della presenza ancora attuale di contatti con
prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e reati contro la pubblica amministrazione, tutti contemplati dall’articolo 4 bis, al fine di evitare la disparità che sarebbe conseguita all’indomani della pronuncia costituzionale.
l’associazione di appartenenza. Per di più l’incostituzionalità si porrebbe anche per l’impossibilità di “valutare il percorso carcerario del condannato, e per l’esclusione della possibilità stessa di una specifica e individualizzante valutazione da parte della
magistratura di sorveglianza”, che così facendo finisce per generalizzare eccessivamente il fenomeno utilizzando “rigidi automatismi” e ponendosi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.
La Corte evidenzia poi un’eccessiva rilevanza alle esigenze investigative e di difesa sociale a danno però del recupero sociale del condannato, questo comporta uno sbilanciamento degli equilibri in gioco che danneggiano l’interessato, non solo negandogli l’accesso ai benefici ma anche punendo la sua scelta di non collaborare con la giustizia, sottolineando così ancor di più che la scelta non costituisce un comportamento neutro per l’ordinamento. Per giunta la presunzione assoluta di pericolosità non valorizza i risultati del percorso riabilitativo del detenuto, così come ricordato anche nella sentenza n. 149/2018, ma tende a definire e fissare la personalità del condannato al momento in cui i reati sono commessi. Dunque secondo la Corte, una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata confligge con i parametri costituzionali, difatti ha fortemente puntato sulla finalità riabilitativa e sull’irragionevolezza della presunzione assoluta esistente, dichiarando, come appena citato, che permessi premio e benefici penitenziari possono essere concessi ai detenuti anche in caso di mancata cooperazione con le autorità quando però non ci sia alcun rischio che continuino a sussistere legami con il sodalizio criminale. Il risultato di questa pronuncia è una preclusione solo “relativa” di pericolosità del condannato nel senso che dovranno essere condotti accertamenti in concreto ed individuali che verifichino

l’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata o legami che il detenuto possa continuare a mantenere con l’organizzazione di appartenenza[60]. Ed ancora aggiunge la Corte, implica ai fini della valutazione in concreto della dissociazione, non una semplice condotta carceraria regolare o la mera partecipazione al percorso rieducativo e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione[61], ma l’allegazione, da parte del condannato che richiede il beneficio, di specifici, congrui elementi a favore e l’acquisizione da parte delle autorità coinvolte di stringenti informazioni che escludono la permanenza di collegamenti68. La novità introdotta da tale pronuncia riguarda anche più precisamente l’inversione dell’onere probatorio in capo al detenuto che deve dimostrare una

[1] ECtHR, Viola c. Italia, 13/06/2019, ricorso n. 77633/16.
[2] A. Mellone, Ergastolo ostativo – Guida all’istituto: l’evoluzione della normativa, il doppio binario, la giurisprudenza costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Altalex, 16/04/21.
[3] Per collaborazione impossibile si intende l’ipotesi in cui il condannato per i delitti di cui al comma 1 art. 4 bis ord. pen. abbia partecipato al fatto criminoso in modo limitato e questo sia stato accertato nella sentenza di condanna nonché nel caso in cui i fatti e la responsabilità siano accertati con sentenza
[4] Per collaborazione irrilevante si intende la fattispecie in cui si abbia una limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, che determini l’impossibilità per il condannato di aver avuto accesso ad informazioni spendibili ai fini collaborativi.
[5] V. Citraro, I divieti di cui all’articolo 4 bis ord. penit., in De Iure Criminalibus, 20/06/18.
[6] L. Pace, L’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario tra presunzioni di pericolosità e «governo dell’insicurezza sociale», in Costituzionalismo.it, fasc. 2/2015, 3.
[7] A. Mellone, op. cit.
[8] Espressione di L. Pace, op. cit., 4.
[9] . I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21, del comma 4 dell’art. 30-ter e del comma 2 dell’art. 50, concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati. 2. Le
[10] F. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana, in F. Palazzo, E. Dolcini, F. Fiorentin, D. Galliani, R. Magi, A. Pugiotto, Il Diritto alla speranza davanti alle corti ergastolo ostativo e articolo 41bis, Torino: Giappichelli, 2020, 68.
[11] Ibidem.
[12] Sent. Corte cost. n. 306, 8 giugno 1993.
[13] Ibidem.
[14] La pronuncia costituzionale pone le basi per tutta la successiva giurisprudenza in materia.
[15] L. Pace, op. cit., 6.
[16] Sent. Corte cost., n. 306/1993, punto 11 cons. dir.
[17] L. Pace, op. cit., 6.
[18] G. Minervini, “Viola v. Italy: a first step towards the end of life imprisonment in Italy”, in The Italian yearbook of international law (IYIL), Vol. 29 (2019), 218.
[19] G. Minervini, op. cit., 220.
[20] Assunto quale norma interposta ex articolo 117, co. 1, Cost. 22 Ivi, 220.
[21] M. Pelissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in SIDIBlog, 21/06/2019.
[22] G. Minervini, op. cit., 220.
[23] F. Fiorentin, op. cit., 72.
[24] A. Mellone, op. cit.
[25] ECtHR, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 09/07/2013, ricorso n. 66069/09, 130/10 e 3896/10.
[26] Per pena perpetua comprimibile si intende una pena che possa essere soggetta al meccanismo del riesame.
[27] ECtHR, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 09/07/2013, nota informativa sul giudizio della Corte n. 165. 30 ECtHR, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 09/07/2013, ricorso n. 66069/09, 130/10 e 3896/10, par. 54.
[28] Ivi, par.112: “Inoltre, una persona condannata all’ergastolo senza alcuna prospettiva di liberazione né possibilità di far
[29] S. Filippi, “Il diritto alla speranza è l’ultimo a morire? L’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Grande Chambre, da Vinter and others v. United Kingdom a Hutchinson v. United Kingdom”, in Diritti Comparati, 24/07/2017.
[30] F. Fiorentin, op. cit., 75.
[31] ECtHR, Kafkaris c. Cipro, 12/02/2008, ricorso n. 21906/04.
[32] D. Gallini, Il diritto di sperare. La pena dell’ergastolo dinanzi alla Corte di Strasburgo, in Costituzionalismo.it, 3, 19/02/2014.
[33] F. Fiorentin, op. cit., 73.
[34] D. Gallini, op. cit.
[35] ECtHR, Kafkaris c. Cipro, 12/02/2008, ricorso n.
21906/04, par. 163.
[36] G. Minervini, op. cit., 221.
[37] ECtHR, Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito, 09/07/2013, ricorso n. 66069/09, 130/10 e 3896/10, para. 101 – 102.
[38] Ivi, par. 113.
[39] A. Larussa, Ergastolo ostativo la sentenza della Consulta sui permessi premio, in Altalex, 23/01/2020. 43 G. Minervini, op. cit., 222.
[40] M. Pelissero, op. cit.
[41] D. Mauri, A New Technique for Implementing ECtHR Judgments: Will It Work? The Corte Costituzionale “Urges” the Houses to Reform the Ergastolo Ostativo, in THE ITALIAN REVIEW OF INTERNATIONAL AND COMPARATIVE LAW
1, 2021, 366.
[42] ECtHR, Viola c. Italia, 13/06/2019, ricorso n. 77633/16, par.125.
[43] D. Pulitanò, Problemi dell’ostatività sanzionatoria. Rilevanza del tempo e diritti della persona, in Diritto penale e uomo, 10/2019.
[44] F. Fiorentin, op. cit., 78.
[45] ECtHR, Viola c. Italia, 13/06/2019, ricorso n. 77633/16, par. 141.
[46] Ivi, par. 143.
[47] G. Minervini, op. cit., 226.
[48] Espressione di L. Pace, op. cit., 13.
[49] Sent. Corte cost. n. 231/2011.
[50] Sent. Corte cost. n. 90/2017. 55 F. Fiorentin, op. cit., 69.
[51] È la stessa Corte Costituzionale con la sent. n. 306 del 1993, sentenza capostipite del filone giurisprudenziale in materia, ad affermare che “dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di mantenimento dei legami di solidarietà con l’organizzazione criminale”. 57 A. Mellone, op. cit.
[52] G. Minervini, op. cit., 229.
[53] Ibidem.
[54] F. Fiorentin, op. cit., 79.
[55] A. Larussa, op.cit.
[56] La Corte estende l’intervento anche agli altri reati “diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previsti”, ovvero reati monosoggettivi quali reati di
[57] Sent. Corte Cost., n. 253, 4/12/2019, p. q. r.
[58] F. Fiorentin, op. cit., 79.
[59] Espressione di F. Fiorentin, op. cit., 79.
[60] F. Fiorentin, op. cit., 80.
[61] Sent. Corte Cost., n. 253, 4/12/2019, cons. dir., par. 9. 68 A. Larussa, op.cit.

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