L’economia (come il benessere materiale) è strumento per l’uomo, non un suo fine, tanto meno il suo fine.

Questa osservazione confuta e smentisce diverse teorie riguardanti il primato dell’economia, sia quelle strettamente materialistiche (implicanti, a loro volta, un’opzione ateistica) sia quelle che si presentano con una maschera religiosa; meglio, come (presunta) dimostrazione della benevolenza divina, evidenziata dalla ricchezza. Anche questa «via» è materialistica al pari della prima. E se le dottrine della liberazione da ogni bisogno umano (esemplare, a questo proposito, è il marxismo) postulano coerentemente la morte di Dio, quelle che si presentano con il volto religioso (per esempio il calvinismo) lo rendono sì il risultato di un dovere compiuto ma, allo stesso tempo (almeno di fatto, di un fatto divenuto costume), strumento dell’individuo umano, il quale vede nella ricchezza lo strumento per la realizzazione dei propri desideri, di qualsiasi desidero, e, pertanto, per il conseguimento della liberazione dagli stessi (Weltanschauung propria dell’americanismo). In breve, la ricchezza sarebbe lo strumento per la realizzazione della gnostica «libertà negativa», vale a dire per l’esercizio della libertà regolata unicamente dalla libertà e, quindi, esercitabile senza alcun criterio. Le apparenti opposte dottrine del marxismo e del liberalismo si rivelano, sotto questo profilo, accomunate da un minimo comune denominatore, rappresentato – lo si è appena detto – dalla libertà gnostica che impone di considerare la libertà il valore supremo; rivendica il «diritto» all’autodeterminazione assoluta della propria volontà; postula l’utopia dell’eguaglianza con Dio, anzi la superiorità su di Lui.

La liberazione integrale, rectius la convinzione che la liberazione assoluta sia un «diritto», postula, poi, che la libertà sia effettiva. Non basterebbe, quindi, la proclamazione dell’assoluto diritto alla libertà formale (propria della dottrina liberale classica, ossia delle origini del liberalismo). Essa, infatti, richiede che la libertà, sia pure quella gnostica, sia sostanziale: per essere liberi secondo questa teoria non basta essere posti astrattamente nella condizione di poter fare. È necessario che tutti possano effettivamente fare. Ogni essere umano, quindi, dovrebbe godere dei mezzi per l’autodeterminazione della propria volontà. Ciò comporta che l’eguaglianza (illuministica) sia condicio sine qua non della libertà. Non basta, per esempio, affermare che tutti hanno diritto di esprimere il proprio «pensiero». Bisogna che tutti siano posti nella condizione di poterlo fare. Fra chi dispone di testate giornalistiche o di televisioni e chi non può permettersi simili mezzi corre una distanza infinita. Per la qualcosa viene richiesta un’eguaglianza di mezzi: i finanziamenti pubblici garantirebbero l’eguaglianza dei diritti[2]. L’eguaglianza, in altre parole, sarebbe condizione della libertà, della «libertà negativa».

È vero che per il conseguimento di questa uguaglianza illuministica si possono percorrere vie diverse. Talvolta persino opposte. Si può, per esempio, ritenere che la collettivizzazione dei mezzi di produzione sia la via obbligata (marxismo). Si può ritenere, come fa la dottrina socialdemocratica che, a tal fine, bastino i servizi pubblici (scuole, servizio sanitario nazionale, trasporti e via dicendo). Si può, inoltre, ritenere idoneo allo scopo un sistema «misto», vale a dire un forte intervento pubblico che sostenga e stimoli (a seconda dei casi) l’impegno privato. In tutti i casi, comunque, le risorse economiche sono considerate strumento principe per la liberazione dell’essere umano.

Nel secondo dopoguerra nei Paesi occidentali si è affermata, infine, la dottrina secondo la quale lo Stato sarebbe chiamato a garantire la liberazione della persona con interventi ed aiuti economici. Così, oltre ai servizi sociali, lo Stato sarebbe chiamato a garantire la possibilità delle opzioni individuali, di qualsiasi opzione individuale (personalismo contemporaneo, che non è riconoscimento della persona classicamente intesa ma presupposto per la radicalizzazione estrema del liberalismo dei secoli precedenti). Lo Stato sarebbe chiamato, quindi, a garantire prestazioni ovvero a consentire la realizzazione effettiva di qualsiasi pretesa: aborto procurato, cambiamento di sesso per finalità non terapeutiche, suicidio assistito, automutilazione per finalità di comodo, erezione di edifici di culto per ogni confessione «religiosa», stipendi ai cappellani militari di ogni religione e di ogni superstizione, e via dicendo. Si tratta dei cosiddetti «nuovi diritti»[3] che impediscono di adottare criteri che comportino di per sé limiti alle opzioni. In ultima analisi ogni ordinamento giuridico sarebbe «repressivo» e, pertanto, illegittimo se si adottassero rationes diverse da quella dell’autodeterminazione assoluta della volontà individuale. L’ordinamento giuridico, infatti, è considerato servente nei confronti della volontà e delle richieste dell’individuo. Lo Stato, pertanto, non potrebbe imporre un solo ordine, il suo ordine pubblico. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, per esempio, ha «recepito» e imposto (e non avrebbe potuto non farlo, anche se di recente con la Sentenza n. 14/2023 si è contraddetta) il rispetto della dottrina del personalismo contemporaneo. La Corte costituzionale italiana, per esempio, ha ritenuto «diritto» dell’individuo disattendere persino a obblighi che la Costituzione stessa definisce inderogabili (cfr. Sentenza n. 467/1991). Lo Stato, così, si autodissolve in virtù del suo stesso ordinamento costituzionale.

Quello che qui rileva, però, è altro. Uno Stato che vuol essere servente nei confronti di qualsiasi opzione individuale, è costretto a praticare un’imposizione fiscale molto elevata: se tutti hanno diritto a tutto è chiaro che lo Stato deve disporre di entrate notevoli, sempre insufficienti ad assicurare i sussidi richiesti nel nome dei «diritti» della persona.

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– A cura del Prov. Avv. Giuseppe Catapano

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